Il fascismo e le linee generali della Resistenza

13 Ottobre 2014 Lascia un commento »

Il fascismo e le linee generali della Resistenza

                                                                          di Roberto Nistri

 

                                                                          Relazione tenuta nel corso di formazione

                                                                           a cura dell’A.N.P.I  Taranto 2014.

1) La parola magica

La parola “fascista” gode sempre di un eccellente piazzamento nella hit parade  dell’insultorio internazionale. Negli Stati Uniti , in ogni causa di divorzio, la moglie accusa immancabilmente il marito  di essere fascist. Il  bad boy del Bronx ingiuria facilmente come pig fascist il poliziotto che gli fruga  nelle mutande.  Oltre a “ciao”, il vocabolo italiano più conosciuto nel mondo è “fascismo”: un originale e moderno “brevetto” italico esportato ovunque, un  camaleontico fenomeno internazionale, fin dalle origini capace d’infettare gran parte d’Europa (Collotti 1989): Germania di Hitler, Spagna di Franco, Portogallo di Salazar, Francia di Vichy, Croazia di Ante Pavelic, et cetera. I politologi occidentali qualificano spesso gli estremisti islamici come fascisti e vengono a loro volta considerati come tali  in quanto imperialisti e razzisti. Nell’attuale scontro fra russi e ucraini, il logo è all’ordine del giorno. Nel febbraio 2014, un testo accademico è stato mandato al macero perchè colpito da una Fatwa degli induisti, subito bollati come “fascisti” dalla  grande scrittrice indiana Arundhati Roy.

A partire dagli anni Settanta, in ambienti progressisti, anche nell’ambito di una coppia,  il maschilismo veniva posto in stato d’accusa come ineludibile variante del fascismo. Nella stagione della grande radicalizzazione, anche fra militanti della Gauche, l’invettiva infame poteva rimbalzare da uno schieramento all’altro.  Fascista si usa dire del bombarolo, del funzionario arrogante, dell’automobilista pirata, dell’inquinatore, della vecchina che sferruzza invocando la pena di morte, del profittatore Uber Alles : un mostro polisemantico. Un mostro da prendere sul serio, da non relegare in un passato remoto e concluso. Pensiamo alla vulnerabilità della democrazia di fronte alla sfida di mobilitazioni collettive che continuano a coltivare il fanatismo integralista dell’odio come una nobile virtù.  Per il fascismo gli avversari politici erano considerati  tipi umani antropologicamente incompatibili con l’Uomo Nuovo, da prendere di mira e obliterare.

Anche nel Parlamento italiano non è cosa rara sentire i deputati accusarsi l’un l’altro della maxima iniquitas, come nella famosa seduta del 29 gennaio 2014, quando l’invettiva  Fascista!  rimbalzava  da uno schieramento all’altro come un ping pong  accompagnato dal tradizionale manrovescio. Seguiva una interessante discussione sul comportamento avanguardista del movimento Cinque Stelle, detto anche “grillino”, che respingeva l’accusa al mittente, addirittura nei confronti del  Presidente della Repubblica, imputato di multigolpismo. Niente di che: prove tecniche di arditismo.

2)  La confusione del mostro

Donde la grande diffusione, nei contesti più disparati,  della parola passepartout “fascismo”? Secondo Eco, dipende dal carattere fuzzy (sfumato) del termine, che permette di qualificare come tali i più disparati sistemi o atteggiamenti dispotici e autoritari. Una differenza imprescindibile: se il fascismo storico si reggeva intelligentemente sulla continua mobilitazione delle masse ( sia pure un coinvolgimento passivo rispetto a scelte già decise) altri regimi, pur chiamati fascisti, si sono retti solo sul carcere e la tortura.  La parola indica in genere una certa aria di famiglia fra governi illiberali e antidemocratici. Lo stesso totalitarismo mussoliniano era largamente fuzzy: un collage di principi difformi, un alveare di contraddizioni fra rivoluzione e monarchia, esercito regio e milizia personale, controllo dell’economia ma anche libero mercato.

Spregiudicate sono state le annessioni lessicali: lo stesso brand era una abusiva derivazione dai sinistrissimi “Fasci siciliani”. Il mussolinismo, nato come ordine rivoluzionario, finanziato dai più conservatori proprietari terrieri, anticlericale e papalino, voleva tenere assieme il futurismo marinettiano della macchina e della potenza e il  pop decadentismo dannunziano, i poeti ermetici e gli ottusi Farinacci, nel finale di partita cercando di giocare l’ultima carta di Salò, resuscitando un improbabile giacobinismo d’antan. Di sicuro Mussolini non ha generato un popolo di guerrieri, ma una società di briganti, complici, spie e delatori.

Probabilmente hanno ragione quanti, nel confronto con il totalitarismo nazista e comunista, evidenziano il carattere non monolitico del totalitarismo fascista . Il “duce” doveva pur sempre fare i conti  con la monarchia e il Vaticano, ma il partito unico e statolatrico non ha mai smarrito il suo imprinting.  Paradossalmente proprio un certo confusionismo,  corretto con uno spicciolo pragmatismo,  ha permesso al Fascismo di avere ancora oggi un così variegato bacino d’utenza,  dall’uomo d’ordine all’ultrà,  di contro alle illacrimate sepolture  del “Socialismo realizzato” e del Nazismo hitleriano, con il codazzo dei loro cloni malriusciti. Comechessia,  l’archetipo fascista, modello per tutti gli imitatori, era vocazionato al totalitarismo sin dagli inizi, come ha chiarito Emilio Gentile: “un fenomeno politico moderno, antiliberale e antisocialista, organizzato in un partito milizia, con una ideologia attivistica e antiteoretica, affermante il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica, etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno stato corporativo, con una vocazione bellicosa  volta a distruggere la civiltà democratica liberale, in nome di un culto razzista e imperialista” , giusto per smentire le pappolate di una perdurante memoria di comodo,  intenzionata a “defascistizzare il fascismo”. Una modernizzazione senza modernità (Claudio Silingardi) centrata su una visione organicistica e gerarchica della società, dove ognuno deve stare al suo posto, ogni conflitto deve essere evitato e si pratica il culto del capo carismatico. Nessuno spazio per i diritti civili, la secolarizzazione, l’uguaglianza dei sessi, la soggettività individuale.

Ripetiamo comunque che Mussolini non  disdegnava scaltre operazioni annessionistiche,  in campo culturale soprattutto.  Vi è stato un solo Nazismo,  con una sola Ideologia e una sola Architettura, quella di Speer. Il “duce”   definiva i resti dell’architettura classica “calcinacci venerabili  nella muffa  “, godeva degli “sventramenti” e spacciava  fasulla romanitas , ma   accoglieva tuttavia una pluralità di stili, compreso un razionalismo architettonico di indiscusso valore. Sono esistiti ed esistono diversi fascismi. Il Nazismo ha avuto una ideologia, organica ed implacabile. Il Fascismo, diceva Eugenio Garin,  ha avuto una  ideologia eclettica, parzialmente sostanziata dalla filosofia di Gentile , la cui maggiore operosità  doveva dispiegarsi solo  nella Enciclopedia Treccani, rigorosamente vigilata dalla censura del padre gesuita Tacchi Venturi. L’operazione più intrigante di Gentile è stata quella di irrobustire il suo attualismo con l’annessione delle tesi marxiane, seducendo così anche il giovane Gramsci .

3)  Il medium e il messaggio: il santo manganello

La vera arma di Mussolini non era una filosofia,  ma una retorica: una fabbrica di slogan e di rituali,   una efficace simbologia massmediale  e soprattutto una liturgia militare. Una accorta tecnica di “costruzione del nemico”, messo all’indice e annientato dal controllo della stampa, dei sindacati, del potere legislativo e di quello giudiziario. Il lessico del fascismo non è univoco, per questo si può giocare con molti fascismi che presentano fra di loro una qualche somiglianza. Senza dimenticare che si tratta sempre di war games, giochi di guerra. La violenza rimane un elemento costitutivo del fascismo. Il medium è il messaggio: la politica del manganello. Solo nella prima fase di ascesa del mussolinismo, dal 1919 al 1921, si possono calcolare 3.000 vittime. Con l’uso della forza e il compromesso con i poteri forti  Mussolini, dopo la Marcia su Roma, istituzionalizza la violenza ma la esercita anche criminalmente, con calcolo selettivo, contro i più valorosi antagonisti: Matteotti, Gobetti, Amendola, don Minzoni, i fratelli Rosselli…

4)  La via facile

Come mai l’invenzione mussoliniana ha trovato tutte le porte spalancate? Se intendiamo la parola “invenzione” alla latina (invenire, trovare) dobbiamo dire che il sor Benito si è ritrovato con una  tavola già apparecchiata e ha saputo cogliere il kairòs, il momento opportuno. Dalla fine dell’Ottocento uno spettro si aggirava  per l’Europa, lo spettro del nazionalismo, che doveva ingenerare la madre di tutte le guerre: il primo conflitto mondiale che avrebbe risucchiato nella mobilitazione totale milioni di morti e mutilati.  La politica dei piccoli numeri non contava più, i vecchi governi venivano considerati, non sempre a torto, come nemici dei cittadini. Il vaso di Pandora era stato scoperchiato e le masse irrompevano sulla scena. Il discorso più eloquente, “la guerra sola igiene del mondo” era il canto della mitragliatrice del futurista Marinetti (la “letteratura ufficiale del fascismo rivoluzionario”). Sfruttando la mitologia vittimista della “vittoria mutilata”, D’Annunzio era l’incarnazione esaltata di tutti i sogni della piccola borghesia italiana e preannunciava tutto ciò che il fascismo avrebbe promesso agli italiani. Si confermava la storica assenza nel paese di anticorpi nei confronti di imbonitori e avventurieri da strapazzo. Il Vate spingeva la “nazione proletaria” a conquistare il proprio posto fra le grandi potenze, con l’esempio dell’avventura fiumana:  non doveva costargli un giorno di prigione, ma imbarcava nella stultifera navis  anche gli anarcosindacalisti di Sorel. Mussolini era attraversato da tutte le componenti ostili alla tradizione liberal-parlamentare, una tradizione che sempre più mostrava la propria inadeguatezza di fronte alla crisi postbellica, al progressivo impoverimento dei ceti medi, alla mortificazione dei reduci e  a quanti  erano stati illusi con la solita promessa della “terra ai contadini”.

Nella vita del paese, l’unica componente in forte ascesa, sia pure tormentata da fratture e scissioni, era il movimento operaio, che doveva manifestare tutta la propria forza nella fase dell’occupazione delle fabbriche, in primis alla Fiat. Gli scioperi si diffondevano a macchia d’olio, ma non riuscendo a proporre uno  sbocco per un movimento così impetuoso, doveva seguire  una cocente delusione per i lavoratori e una grande paura per i padroni. Mussolini, che per un certo periodo aveva simpatizzato per l’occupazione, delle fabbriche per tutta una fase; comprendendo che il movimento antagonista ormai si avviava al riflusso, prendeva a trescare con Giolitti per chiudere la vicenda di Fiume e si sceglieva il ruolo di guardia armata del capitale.

Con l’attacco a Palazzo D’Accursio a Bologna, il 21 novembre 1920, si dava inizio allo squadrismo. Violenze ed aggressioni contro singoli militanti, distruzione di case del popolo, di tipografie, di sedi sindacali e politiche, di leghe e cooperative , segnavano il “biennio nero”.   La “caccia al rosso” era  sovvenzionata dai proprietari e protetta da una circolare ministeriale che invitava i magistrati a non perseguire i fascisti. L’idea era quella  di usarli contro i socialisti e poi mandarli a casa ; così le squadracce potevano impunemente  annientare una dopo l’altra le varie organizzazioni operaie (“come mangiarsi il carciofo una foglia alla volta”) e  intanto preparavano il terreno ad un esautoramento del vecchio ceto politico.  Nell’ ottobre del ‘22  era in cantiere il colpo di stato. La parola d’ordine era: “Bisogna spennare la gallina senza farla gridare”.

5) Umberto Eco e il “fascismo eterno”

Con una ars combinatoria è possibile togliere , aggiungere o permutare alcuni elementi, garantendo la permanenza di un qualcosa che si possa chiamare “fascismo”.  Il fascismo, pur vantando orgogliosamente la   primogenitura italiana, è riuscito a proporsi come un archetipo europeo e non solo, proprio mantenendo il gioco del togli e metti. Si può giocare al fascismo in molti modi, pur non cambiando  il nome del gioco .  Il sogno del fascista è sempre quello dell’universo concentrazionario e del “qua comando io e posso fare quello che voglio”,  nel dualismo fra soggiogato e soggiogatore ( Eco 1995). Ci si può chiedere se nel continuo scambio delle tessere del mosaico sia possibile cogliere una impermanenza, un insieme di costanti che  Eco chiama ur-fascismo.

Il fascismo eterno ricostruito da Eco mette in fila alcuni indicatori forti.  I.  Il culto della tradizione come deposito di una verità primordiale.  II. Il nazionalismo come religione del sangue e della terra, Blunt und Boden.  III.  La frequentazione dell’ermetismo magico-alchemico, con annesso templarismo e new age . IV.  L’irrazionalismo vitalistico  contra l’illuminismo e la cultura scientifica .  V.  La difesa di una verità assoluta contro un relativismo portatore di discordia e scissione.    VI. Il mito dell’eroe o capo carismatico che, nella condizione di perpetuo stato d’assedio, difende la comunità dai nemici camuffati.  VII.  La inoculata sindrome del complotto – possibilmente internazionale o addirittura planetario – che inquina la città felice con l’infiltrazione di  agenti provocatori. VIII. Il rapporto asimmetrico con l’alterità (razzismo, xenofobia, machismo) risulta ineluttabilmente orientato verso l’inferiorizzazione dell’altro.

Il mito di una razza superiore  presuppone l’immaginazione di una razza  inferiore: un tipo difettoso, il bastardo per eccellenza: l’ebreo.  La Destra non considera positivo il rapporto paritetico, simmetrico e inclusivo… “Non c’imbattiamo mai nella coesistenza pacifica di un vis-a-vis, bensì in una gerarchia violenta. Uno dei due termini comanda l’altro…e sta più in alto di esso” (Derrida 1972). Il fascismo vuole insaccare il mondo nella sua “giusta” forma , avversando l’informe o deforme diversità. Ordine e pulizia: l’imperativo è uniformarsi. La Destra considera un valore non l’Eguaglianza ma la Gerarchia, anzi, per cogliere il nocciolo duro di questa cultura, valore e disvalore si riconoscono nella semplice logica binaria del chi è sopra e chi è sotto. Si tratta di una logica molto antica e molto forte: nella lotta greco-romana  vittoria era schiacciare l’avversario spalle a terra.  Il fascista si considera uomo di natura e  non di cultura ; qualora fosse un professore tedesco ammonirebbe  che anche la politica è l’arte di mettere sotto: in grecia la radice pol riguardava tanto la  politeia, il governo, quanto il  polemos, la guerra.

Come si vede, non è inesplicabile la formazione della mentalità fascista e anche bullista.  Tutt’altro rispetto alla  ardua   impresa educativa promossa da Lorenzo Milani: trasformare Franti in un cittadino sovrano. Non è impossibile: in natura esiste l’orgoglio del gene che promuove la sopravvivenza, ma anche la  solidarietà di specie che permette la reciprocità. L’intreccio natura-cultura (il crudo e il cotto) è sempre complicato, anche in quel nucleo amoroso che ha una valenza universale: è nota la favola dei due amanti polinesiani che si strinsero in un amplesso gioioso  nelle acque di una fontana. Manifestarono reciproca felicità ma il maschio ci tenne a puntualizzare: “questa volta ti sei sdraiata su di me, da ora in poi starai sotto”, secondo la posizione non a caso detta del “missionario”.   Insomma, fascisti si nasce o si diventa?  Priebke era  uno scherzo di natura o è uno scherzo della cultura?

6)  L’uomo delle pulizie

In ogni caso il fascista si autoproclama portatore sano di purezza, considera il diverso da sé un impuro, un nemico facilmente individuabile perché puzza, perché è sporco e inquina la salute del clan. Il fascista si presenta come un igienista.  Già Platone era maniaco della “purificazione”:  “catarsi” originariamente voleva dire “purga”.  Separare il peggiore dal migliore e nel caso distruggere la parte cattiva, come suggerisce il verbo greco kathairèo .  Una questione di identità, integrità, igiene. “ I nazisti erano delle donne delle pulizie nel senso peggiore del termine. Armati di strofinacci e scope, volevano purgare la società da tutto ciò che consideravano come materiale purulento, polvere, immondizia: sifilitici, omosessuali, ebrei, gente dal sangue malato, neri, folli. E’ l’infetto sogno piccolo borghese della pulizia razziale che sottendeva il sogno nazista” (Foucault 1975).

Il nazifascista è affetto da  “rupofobia” : una ossessione del sudiciume,  “rupos”,  un disturbo ansioso che provoca  la coazione a ripetere l’atto della pulizia. L’incapacità di fronteggiare le proprie mancanze , la rimozione della propria “ombra”, lo rende un nevrotico “ripulitore”  di tutte le macchie del mondo. La pretesa humanitas del nazista si disvela come culto della discarica. “Gli ebrei erano trattati come si trattano i rifiuti industriali o la proliferazione dei parassiti, da cui la sinistra battuta dei negazionisti sullo Zyklon B. Ma dire che lo Zyklon B serviva ad eliminare i pidocchi è la migliore prova delle camere a gas. Tale operazione di pura igiene o di sanità  (sociale, politica, religiosa, culturale ecc…, ma anche simbolica) non ha nessun corrispondente nella Storia (Lacoue-Labarthe 1987). Quanto all’Italia, soltanto stabilendo la continuità tra razzismo coloniale e razzismo antiebraico è possibile capire l’assuefazione della maggioranza della popolazione al discorso razzista e al tempo stesso sottrarre l’interpretazione dell’antisemitismo fascista all’unica ipoteca dell’influenza tedesca (Collotti 2000). Altro che estraneità dell’Italia al “cono d’ombra dell’Olocausto”.

7)  Pasolini,  il fascismo e la “Società dello spettacolo”

A partire dagli anni ’70 Pasolini aveva indicato l’affermarsi di nuove forme di fascismo che hanno a che fare molto meno con la violenza dei neofascisti e molto più con la “felicità del consumo”, produttore di un genocidio culturale. L’ultimo suo film, Salò, può essere considerato un vero e proprio saggio di “fiction etnografica” (Manna 2009). L’opera estrema di Pasolini è la più profonda espressione del fascismo di ieri e di sempre, esibendo l’incubo allegorico di un mostro sterminatore: un campionario delle perversioni come il catalogo sarcastico di un aberrante palinsesto televisivo. Il passaggio dal vecchio al nuovo fascismo  è il passaggio dal superuomo al banale superuomo di massa, la fusione fra l’ uomo qualunque e  il messia della porta accanto, il vicino di casa unto dal Signore, il delirio della super-normalità veicolata dalla pubblicità.  Secondo Pasolini la nuova destra è lontana da  quello che lui chiama Paleofascismo: ha prodotto la rivoluzione interclassista dell’ansia del consumo, una ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato, l’ansia degradante di essere uguale agli altri nel consumare e nell’uniformarsi.

Tuttavia, a parte la svolta epocale del consumismo (il fascismo rimaneva pur sempre legato al ruralismo) Mussolini sapeva ben giostrare fra propaganda di “agitazione” e propaganda di “integrazione”, costruendo una fabbrica del consenso volta a produrre un carattere sociale e un modo di vivere: un pubblico, curato dal Minculpop e  nutrito con stereotipi e spot pubblicitari  di derivazione dannunziana , marinettiana e mussoliniana. Quel fascismo, con la radiodiffusione e l’iconografia delle adunate, con la gestione della musica e del fumetto, ma soprattutto del cinema , “l’arma più grande”, anticipava una “società dello spettacolo” che si distanziava di gran lunga dalla propaganda monocorde del nazismo, per non parlare della grigia pochezza del franchismo e del salazarismo. Si pensi alla vastità di uno spazio culturale dedicato alla letteratura di consumo ( d’evasione o trasgressione o consolazione) fra superomismo di seconda mano e donne fatali in pelliccia, con immancabile lieto fine per la fanciulla pura e ritorno del pilota che in Africa si accompagnava con la bella Faccetta nera.

Fra  Liberty ed esotismo coloniale ,  iconografia tanatofila e devozione erotica per l’eroe, si accettava anche l’ingresso di film e romanzi stranieri, pur mantenendo il controllo totalitario e accentratore  su una Italia provinciale che  inspiegabilmente si  convinceva  di essere al centro del mondo, in grado di sottomettere  nella guerra rigeneratrice etiopi ed ebrei ma anche inglesi e americani.  Razza, Patria, Sangue, Sacrificio… tutte parole in maiuscolo.

8)  Il “mondo servo” e la banalità del potere  

Oggi la modernità del potere coincide ormai con la banalità del potere. La tv offre come ideale non il superman ma l’everyman, l’uomo assolutamente medio  (Eco 1961). Come il zelante Eichman, l’uomo medio tendente verso il basso. Film più recenti sono abbastanza perspicui: Si veda l’esercizio della suggestione nella colonizzazione mentale  fra servo e padrone in The Master (2012).  Ma in filigrana si riconoscono ancora i tratti del vecchio fascismo: anche la rappresentazione del “mondo servo” nel  Django di Tarantino, dove i corpi in lotta dei gladiatori umiliati sono parte di uno spettacolo da ammirare per lo sfizio dei loro padroni, di chi li possiede, di chi li può sostituire, di chi sacrifica la loro esistenza per il bisogno di intrattenimento. Questo è lo stato delle cose nel nostro presente di crisi, quando il 99% è sacrificabile al potere dell’1%.

A questo punto ci imbattiamo non in un epilogo ma in uno  scabroso re-inizio: come si diventa fascisti in assenza del Fascismo?  Il self-racism, come il self-service o il self-help. Nel film L’Onda del 2008,  ispirato al reale esperimento realizzato nel 1967 a Palo Alto, un gruppo di studenti scettici e indolenti seguono l’allenatore della squadra in una attività che si trasforma progressivamente in un gioco di ruolo con regole ferree  ed esclusive, accentuando il  bisogno di  identificazione nel leader. Nel reality show si passa dal razzismo contro gli anormali a un razzismo per normali ( Di Vittorio 2009).  Si tratta della interioriorizzazione del comandamento che porta alla follia il militare  Nicholson  nel film Il ponte sul fiume Kwai (David Lean 1957).

9)  Voglia di “Abbasso tutti”

A questo punto possiamo valutare alcuni sintomi di parafascismo ampiamente diffusi in terra italica, dove comunque non si affermano , a differenza di altre parti di Europa, organizzazioni xenofobe e razziste fortemente radicate.  Ma siamo sempre a rischio, come  osservava Giustino Fortunato: “Noi siamo autoritari fino alle ossa; e per eredità, per educazione, per costumi, siamo indotti o a troppo comandare o a troppo ubbidire”. Già nel 1898 aveva fatto la sua comparsata un primo uomo forte, un fascista ante litteram: il generale Pelloux che nel 1898 prendeva a cannonate i lavoratori milanesi.

Certo, si respira un’arietta di fascismo – mantenendo sempre il senso delle proporzioni – quando in politica il turpiloquio è la scorciatoia per non pensare, un allenamento propedeutico alla violenza. Quando si mettono in giro alcune ronde e magari inizia la caccia ai senza tetto.  L’uomo delle pulizie è sempre all’erta e la figura dell’antipolitico “grillino” (come al solito né di destra né di sinistra) ne è l’ennesima incarnazione. E’ grave la vocazione alla gazzarra e alla scostumatezza istituzionale, come è grave la continua evocazione di un annichilimento universale  di tutte le altre componenti politiche.  Schiettamente fascista è la ripugnante reiterazione  sul Dead Man Walking. Ma l’atteggiamento più spiccatamente fascistoide è nel complesso di superiorità nei confronti degli “altri”, il suo ritenersi più puro e più virtuoso negando ogni dignità alla posizione altrui, a priori considerata come portatrice di corruzione. Ricordiamo le parole del futurista Mario Parli nel 1928: “Parliamo un’ altra lingua, siamo di un’altra razza, siamo forgiati da un’altra fucina. Come volete che facciamo a fonderci? Nessuna collaborazione può esistere fra uomini di così diversa tempra”.   Quello che conta è la “volontà comune”, della quale solo il leader pretende di essere l’interprete. Una paternità che non cerca dialogo, non riconosce alcuna dignità al suo interlocutore, non parla ma accusa l’impurità dell’avversario,  di cui si dichiara un “nemico fisico”.

Il fantasma padronale del fascismo, il fondamento di ogni famiglia autoritaria: un padre padrone travestito da adolescente rivoltoso che vuole disciplinare soprattutto i suoi ragazzi, fascisticamente disposto a ingiuriare una anziana Premio Nobel, fare una caricatura di Primo Levi e trascinare la Shoah in una rissa da taverna. La volontà comune, il popolo o,  meglio, il fideismo digitale della  rete, con corredo di anatemi e scomuniche, è solo un rituale settario, una guerra virtuale contro un mondo vecchio e corrotto. Il grillino, una sorta di “cataro”, deve tutelare la purezza della tribù digitale, minacciata da fantomatici trolls esterni e da inquinatori e  cacadubbi interni , inclini a mostrare  debolezza nei confronti degli agenti del male, da sorvegliare o da espellere  .  Extra ecclesiam nulla salus: la dissidenza è  naturaliter l’anticamera del tradimento. In questo per niente originale gioco di ruolo, il mito della Rete, la divinità del pollice verso,  illumina la strada del Terrore. Il partito epurandosi si rafforza,  salmodiavano  un tempo i maoisti italioti. Se il neurocomunismo si è spento malamente,  il fascismo –  diciamolo fuzzy o sui generis – è sempre vivo. Come si comincia? Ogni volta che un politico getta dubbi sulla legittimità del Parlamento, perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore del fascismo. Bisogna fare attenzione all’inizio: i fascisti non cercarono mai lo scontro  in campo aperto e non fecero alcuna rivoluzione: s’inghiottirono la democrazia una foglia dopo l’altra.   Se non si vigila all’inizio, se si temporeggia, tutto può andare perduto.  Valga l’apologo della rana bollita. Una rana immessa in una pentola d’acqua tiepida nuota con piacere. La temperatura sale e la rana resiste, ma ben presto finisce bollita. Sarebbe stato meglio per lei scottarsi all’inizio e balzare fuori dalla pentola, evitando la lenta e mortale assuefazione.

Enrico Deaglio intravede la possibile formazione di un partito dell’estrema destra radicale, lepenista, con la mutazione della vecchia Lega, trasformata da Salvini in partito nazionale, da nord a sud, con il rigetto del vecchio mito della Padania, aggregando il “Fascismo eterno” di Borghezio con il suo 17 %  a Lampedusa, con “Casa Pound”,  “Forza nuova”, il “movimento dei Forconi”. Al primo posto la battaglia contro gli immigrati, contro “Mare Nostrum” e i soldi sprecati per salvare dei msngiabanane che ci portano la tubercolosi.

L’autoterapia è restare se stessi, non aderire alla servitù volontaria delle coscienze, indotta dalla caciara di un sistema mediatico onnipervasivo. Sempre prestarsi, mai darsi per intero.

Tra tante cose dobbiamo farne soprattutto una: dobbiamo svegliarci. Non siamo più in grado di badare a noi stessi e invece dobbiamo cominciare a badare a noi stessi  ( Evangelisti 2006).

 

Chiamalo antifascismo

1)  Una dittatura bonaria?  Una “allegra baraonda”?

I valori dell’antifascismo sono i valori della nostra costituzione repubblicana, purtroppo spesso maltrattati dai nemici della democrazia, aiutati da una comunicazione massmediale che diffonde  una informazione semplificata, volta ad omologare la memoria al livello della conflittualità più ridotta possibile, con la trasmissione di messaggi riduzionistici: una memoria edulcorata, con una comunicazione facilmente utilizzabile in senso “revisionista”. Già durante la guerra di Spagna parole come “fascista” e “antifascista” diventavano categorie di estensione planetaria. Non si faceva guerra agli ustascia, ai falangisti, ai quisling . Guerra al fascismo si diceva ovunque, e bastava. Con l’invasione germanica dell’Europa ai affermava ovunque la resistenza europea e la guerra dei popoli contro le dittature. La seconda guerra mondiale ben presto si  sarebbe definita in tutto il mondo come una lotta contro il fascismo.  Nel ’44 Roosevelt dichiarava: “La vittoria del popolo americano e dei suoi alleati sarà una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta”.   Bisogna ancorarsi ad un paradigma forte: il richiamo all’antifascismo, all’antinazismo e agli ideali della Resistenza, si può considerare il presupposto fondamentale di un consenso generalizzato per la costruzione dell’unità europea. L’acquisizione di una identità europea si basa sul rifiuto delle istanze antidemocratiche e razziste, con una conventio ad excludendum dei movimenti dell’estrema destra, sempre avversata dagli anti-antifascisti. Per non confondere storia e politica, occorre non una storia unica, ufficiale e pacificata, con appiattimento dei valori ed equiparazione fra massacratori e liberatori, ma una riflessione critica, priva di indulgenze consolatorie, per es. la mitologia degli italiani brava gente : Lutz Klinkhammer  ha osservato che gli italiani amano presentarsi quasi sempre come vittime e mai come oppressori. Di recente

recente Eataly ha pubblicizzato un evento commerciale come Festa dell’ambaradan. Occorre ricordare che il termine deriva da Amba Aradam, una località montuosa dell’Etiopia dove nel febbraio del 1936 si svolse una sanguinosa battaglia, in cui l’aviazione italiana fece uso di armi chimiche, altro che “allegra baraonda”. Una rimozione come tante, per mettere a tacere la cattiva coscienza.  Il giornalista Ostellino ebbe a dichiarare: “Non fu un regime oppressivo di massa”. Molti caddero vittime dello squadrismo e il 3 gennaio 1925 lo stesso Benito rivendicò la paternità delle violenze, incluso l’omicidio di Matteotti. Vanno aggiunti i 31 giustiziati condannati dal Tribunale speciale, che condannava 5.600 antifascisti a innumerevoli anni di carcere, 12.300 confinati, 100.000 schedati. Seguirono nel 1935 i massacri a base di gas tossici in Etiopia. Nel 1940, al grido di “Spezzeremo le reni alla Grecia” trascinò quel paese in un immane conflitto. Aggredendo la Francia, avrebbe provocato la morte nella guerra hitleriana di 400mila italiani.

 

2)  L’opposizione al regime

Anche la storiografia resistenziale non ha reso sempre un buon servizio all’antifascismo, spesso piegato ad interessi di contingente legittimazione politica, creando un’aura di retorica sacralità che  l’avrebbe resa uggiosa agli occhi delle nuove generazioni. Paradossalmente, ma non tanto, in Germania la storiografia critica si è mossa in maniera attenta nel valorizzare quella che è stata l’opposizione alla dittatura. In Italia gli studiosi non hanno sempre distinto l’opposizione al regime – un carcere per 40 milioni di carcerati condannati all’entusiasmo –  rispetto la fase della lotta armata.  L’antifascismo dei primi anni, in patria e nell’emigrazione,  non era certo in grado di abbattere il regime, ma poteva preparare il personale politico che doveva guidare l’Italia dopo la liberazione, offrendo con  un grande esempio morale,   la conditio sine qua non  per il sorgere della posteriore Resistenza. Senza il primo essa non ci sarebbe stata, e gli italiani non avrebbero conquistato da soli il passaporto per la libertà.  Senza l’opera degli uomini tempratisi attraverso processi e carceri non avremmo avuto la nostra Resistenza, che aveva i suoi antecedenti nelle lotte accese in Italia dai tempi del delitto Matteotti alla partecipazione nella guerra civile in Spagna, combattendo direttamente contro l’aggressione nazifascista.

Purtroppo la storiografia ha approfondito particolarmente la fase resistenziale, costitutiva dello Stato democratico, schiacciando su di essa la fase dell’antifascismo. Così è mancato l’approfondimento di come gli italiani  avessero vissuto durante il fascismo:  proprio il tema della formazione di un carattere sociale con il quale ancora oggi bisogna misurarsi.  Piero Gobetti nel’24, morto di bastonate, definiva il mussolinismo “abito cortigiano, scarso senso della propria responsabilità, vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza”.  Quale il movente,  non del colpevole ma della vittima consenziente?  Lo spirito gregario, servile, amorale e familista,  pronto all’acchiappo del piccolo vantaggio (Deaglio 2014). Da ricordare gli specialisti nella caccia agli ebrei, per riscuotere i premi previsti per la loro cattura.

3)  La forza etica del “Non Mollare”!

 

Solo a partire dagli anni ’70 la storiografia ha tematizzato il rapporto fra fascismo e società, pur dovendo fare i conti con i revisionisti dell’afascismo. Sul carattere minoritario dell’antifascismo non c’è discussione, ma non per questo si può sminuire il valore di minoranze virtuose, convalidando solo lo scenario del nicodemismo collettivo.L’antifascismo eroico, il Non mollare! contro le bande mussoliniane, ha convissuto con quello passivo, con parziali prese di distanza dal Regime, magari nascendo solo dall’aspirazione a una vita normale. Non sarebbe certo bastato per la caduta del fascismo, ma per esempio l’opera degli insegnanti antifascisti è stata determinante per la preparazione della Nuova Italia. E questo vale ovviamente per i cospiratori, i fuorusciti, i confinati, gli operai e i contadini che non poche volte hanno alzato la testa. “Vi furono uomini che decisero anche di uccidere e farsi uccidere nel nome della libertà. Furono pochi, ma senza quella loro scelta saremmo stati tutti moralmente molto più poveri (De Luna, 2014). Gli esuli venivano considerati sognatori, ma Salvemini rispondeva: “Forse siamo destinati a rimanere nelle nuvole. Meglio però le nuvole che la melma”. Come Gobetti , ridotto in fin di vita dalle bastonate degli squadristi, così nel cimitero di Poggioreale rimane una epigrafe: “Qui giace Giovanni Amendola, aspettando”.

Un “paese migliore” , era sempre nel cuore di quei patrioti. Nel  libro intitolato Il combattente (2014) lo scrittore tarantino Giancarlo De Cataldo si confronta con il suo ragazzo, ricostruendo la lunga e bella avventura umana dell’antifascista Sandro Pertini,  in trincea durante la Prima Guerra, esiliato, pluricarcerato, confinato, partigiano, dirigente socialista e protagonista della nuova Repubblica fino a diventarne il Presidente dal 1978 al 1985.  Imbattendosi nelle pagine  più tormentose del nostro grande e tragico Novecento, quando  la violenza politica accende il dubbio nella mente del ragazzo, non rifugiandosi nella  pretestuosa “complessità”, il giudizio del padre è netto: “ C’era la dittatura, oggi c’è la democrazia. La libertà è il solo fine che veramente giustifica i mezzi”.

Chiamala Resistenza

1)  Insorgere per risorgere!

Nel 1921 il fascismo aveva bloccato la necessità di dare rappresentanza politica alle masse escluse. Nel 1919 i socialisti avevano 150 deputati e i popolari, nati da appena un mese, 100 deputati. Operai e contadini avevano preso per la prima volta, e in massa, la parola. Quella spinta doveva rivivere solo nella lotta di liberazione. Nel dopoguerra la memoria resistenziale è stata in grado di attivare nel paese processi di identificazione profondi. Ogni comunità vive anche dei suoi miti, delle sue retoriche e dei suoi luoghi della memoria. Vale per il Risorgimento, vale per la Resistenza. Il salire in montagna per i giovani partigiani comportava un andare in alto, verso un nuovo cielo, alla ricerca di se stessi, quando, dopo il cataclisma dell’8 settembre, nessun italiano, nella bancarotta di una pretenziosa parabola storica, sapeva più chi era.  Ma l’avvio dei grandi scioperi operai del ’43 segnava la strada: insorgere per risorgere era la parola d’ordine. Purtroppo fra i partigiani si trovavano a combattere anche dei bambini. Un sergente inglese scattava una foto il 26 settembre ’44 ad Angelo Batelli: “The boy is only 8 years old” e rischiava la vita per salvarla a molti soldati alleati, disinnescando le bombe a mano dei tedeschi (“la Repubblica”, 20 aprile 2014). Da subito si sarebbe sprigionata una vera e propria guerra della memoria che ancora non si è sopita.    Comprensibilmente la nuova classe dirigente doveva escogitare tutti gli stratagemmi  per evitare al paese, uscito sconfitto dal conflitto bellico, una pace punitiva. Occorreva dissociare, di fronte agli alleati e di fronte al mondo, la figura del “bravo italiano”  contrapposta a quella del “cattivo tedesco”, l’ “eterno barbaro teutonico”. Si costruiva  una memoria collettiva largamente autoassolutoria: parzialità e reticenze si sarebbero scontate dopo.  La stessa propaganda alleata tendeva a favorire una immagine degli italiani come “vittime” del fascismo e della “ guerra di Mussolini”. In fondo i tedeschi avevano sostenuto Hitler fino all’ultimo giorno mentre gli italiani erano insorti contro il fascismo e avevano liberato il paese,  senza sottacere la collaborazione dei fascisti di Salò alle stragi e alle rappresaglie compiute dai nazisti in Italia, nel disperato tentativo di accreditarsi ai loro occhi.

 

 

2)  La guerra della memoria

 

Tutto vero, ma anche maledettamente ambiguo. Parola d’ordine : metterci una pietra sopra, viatico all’ analfabetismo morale. Difficile da rimuovere il giudizio  di Churchill: “Quando una nazione si permette di sottomettersi a un regime tirannico, essa non può essere assolta dalle colpe di cui questo regime si è reso colpevole”. Comunque la Resistenza fece da ponte fra una angosciata Finis italiae  e una patria decisa a sopravvivere e a farsi onore. Ma già nel 1946 il partito dell’ “Uomo Qualunque” definiva “sciacalli” gli antifascisti. Seguivano scrittori come Giannini, Malaparte, Longanesi e anche Montanelli , che nel ’47 inventava l’espressione “il buonuomo Mussolini”. Si scriveva sui muri “abbasso tutti!” e  si denunciava la “partitocrazia”: termine spregiativo coniato dal  politologo Giuseppe Maranini nel 1958. I democristiani ponevano le basi per il tormentone della “pacificazione”,  che si sarebbe protratto per decenni.  Messo in ombra il consenso di tanti italiani nei confronti del Duce e anche della guerra d’aggressione, si avevano atteggiamenti omertosi per i gravissimi crimini commessi da parte italiana contro i civili e i partigiani, specialmente in Jugoslavia. Comunque il martirologio degli antifascisti e di tutte le vittime dello stragismo, legittimava pienamente la data fondativa della Nuova Italia, il 25 aprile, il giorno della Liberazione.

Si continua a parlare di “memoria divisa” o addirittura “frantumata”, ma si deve ricordare che le guerre, soprattutto le guerre civili, non finiscono mai. Le ferite del grande conflitto sono ancora incise nella pelle di tutti i paesi che furono coinvolti e i conti non sono chiusi una volta per tutte, anche nel nostro presente storico, considerando che furono più di mille i criminali di guerra denunciati dai paesi vittime del fascismo, ma in Italia nessun processo venne mai  celebrato. Anzi, la blanda epurazione permise a quanti erano stati pesantemente compromessi con il fascismo di “non pagare dazio”.  Anche i torturatori se la cavarono in virtù della grottesca distinzione tra sevizie “semplici”, “efferate” e “particolarmente efferate”. Lo stupro plurimo veniva derubricato a “massima offesa al pudore di una donna”.

 

 

3)  Pari e patta?

 

 

 

L’Italia, al contempo vincitrice e vinta, pensò bene di cavarsela con il “baratto delle colpe”, magari occultando i fascicoli nel famigerato “armadio della vergogna”. Nessuno dei 750 criminali di guerra italiani indicati dall’Onu è  mai stato posto sotto processo. In verità  c’è stato un solo ufficiale italiano che è stato fucilato per “crimini di guerra”. In mezzo a tante piccole storie ignobili vogliamo ricordare la fierezza di Nicola Bellomo, comandante del Presidio Militare di Bari,  che difese strenuamente  il porto pugliese , rimanendo anche ferito, ma obbligando i nazisti alla ritirata e infine alla resa, permettendo così agli inglesi di sbarcare in piena sicurezza. Gli inglesi lo ricambiarono sottoponendolo alla Corte marziale, con l’accusa di aver sparato ad un prigioniero britannico in fuga. La vicenda presentava risvolti molto oscuri (si parlava anche di agenti monarchici intenzionati ad eliminare un testimone pericoloso, date le sue informazioni sulla fuga del re dopo l’8 settembre). Il primo comandante della resistenza antinazista rifiutò di inoltrare domanda di grazia e venne fucilato. I cittadini di Bari hanno sempre onorato la memoria del comandante Bellomo.  Nell’Italia del 1960, 62 prefetti su 64 e 120 questori su 135 venivano dal fascismo. Con tutto quello che ne consegue, compreso  il sospetto circa la copertura su 14 stragi, da piazza Fontana in poi. La civiltà della libera Italia si condensava solo nel più prezioso lascito della Resistenza: la Costituzione Repubblicana,  non certo quella fasulla proposta da Badoglio in continuità con la legge elettorale del 1918.

 

4)  La Resistenza sotto processo

 

 

Malgrado le chiacchiere sulla pretesa egemonia della cultura antifascista, negli anni della guerra fredda la Resistenza si è ritrovata all’opposizione, quasi ridotta al silenzio nelle scuole e nella sfera della comunicazione, schiacciata nella guerra fredda  fra comunismo e anticomunismo, messa in stato d’accusa per eventi come l’attentato di via Rasella a Roma, pienamente legittimato dalla storia e dai tribunali. Cantare nelle scuole Bella ciao , per il solito prefetto, nel 2014 sembra ancora  un pericolo per l’ordine costituito. Persecuzioni nei confronti dei partigiani, liberazione per quasi tutti i detenuti fascisti, compreso criminali di guerra come Borghese e Graziani. A partire dal primo decennale della Liberazione, negli anni ’50 si registrano alcuni documenti radiofonici, con la rigida esclusione di esponenti dei partiti di sinistra.  Nel 1958 lo storico Roberto Battaglia è costretto addirittura a denunciare la Rai per apologia di fascismo. Le cose cominciano a cambiare a partire dal  luglio1960, con i moti antifascisti di Genova, l’apertura del centro sinistra e una circolare ministeriale che estende l’insegnamento della storia nelle superiori sino alla nascita della Repubblica e alla Costituzione. Il 25 aprile 1961, per la prima volta va in onda, in un clima di baruffa, il primo documentario televisivo sulla Resistenza. Lo scrivente ricorda che, nel proprio liceo, solo due docenti di storia,  di esperienza partigiana, i non dimenticati fratelli Trento, facevano maturare una coscienza democratica, pur osteggiati per il libro di testo del 1964, di Armando Saitta:  Dal Fascismo alla Resistenza.

 

 

5)  Contro i neofascisti, la primavera di Genova

 

 

La cultura cosiddetta afascista aveva ancora nostalgia del silenziatore, ma negli anni ’60 l’Italia e il mondo stavano cambiando. Un ruolo importante lo avrebbe avuto il cinema, proprio a partire dal 1960. Memorabile in quell’anno il film Tutti a casa di Luigi Comencini, che rappresentava l’italianuzzo Alberto Sordi in una nazione allo sbando, costretto a misurarsi con la sua mediocre normalità fino a redimersi nelle quattro giornate di Napoli. La stessa trasformazione subiva  Il Generale della Rovere , un millantatore che campava alle spalle delle vedove di guerra , ma che immedesimandosi sempre più nella sua maschera, riusciva a morire come un vero generale antifascista (1959).  Così il ladruncolo Totò che scambiava i suoi abiti con il maresciallo De Sica anche lui travestito (quelli erano i giorni dei continui camuffamenti) anche lui si trovava per un momento a recitare la parte dell’eroe ne I due marescialli (1961). Dello stesso anno era anche  Il Federale in cui Tognazzi rappresenta l’ottuso fascista che si rifiuta fino all’ultimo di vedere il collasso della grande menzogna e che forse impara qualcosa dalla mitezza  del suo prigioniero. Proprio la cifra della commedia, senza nulla togliere alla grande drammaturgia di Rossellini e Lizzani, permetteva al più vasto pubblico di ritrovarsi in una memoria che, per un quindicennio, era stata imbalsamata dalla retorica e dal reducismo.

Nel fiorire di una nuova stagione di studi, con una ricca produzione di documentari di qualità (come quello di Nanni Loy su La notte di Taranto) si poteva senza pregiudizio approfondire le ricerche su una vasta e variegata zona grigia,  che ha accompagnato la storia d’Italia, coccolata  dal pensiero moderato,  sempre tendente a confondere se stesso con il realismo e l’oggettività (Isnenghi 2000). Studi recenti hanno invece evidenziato quella “resistenza civile” ( la solidarietà verso gli inermi, i feriti, i prigionieri)  senza la quale la “resistenza armata” non avrebbe potuto sussistere, ma certo la sola  “resistenza civile” non sarebbe bastata.

 

 

6)  La vulgata defeliciana

 

 

Nel 1965, a partire dagli scritti di Renzo De Felice, con la sua lettura edulcorata del fascismo, che ne riabilitava l’immagine, dipingendolo come un “autoritarismo all’italiana”, retorico e velleitario, bonario e paternalista, progressivamente si incrementavano gli attacchi alla cosiddetta vulgata antifascista, grazie anche al clima molto acceso del ’68. Il movimento studentesco dell’epoca contestava la “beatificazione della Resistenza”, condividendo l’antifascismo esistenziale , tradotto nell’obbligo morale alla disobbedienza nei confronti di un ordine oppressivo, nel riconoscimento della crucialità del conflitto, nella ricerca e nell’esperienza di forme di vita alternative, sull’esempio della comunità liminare rappresentata dalla banda partigiana, modello di democrazia diretta. Nei cortei del 25 aprile gli studenti si accodavano,  contestando tuttavia la retorica celebrativa e concludendo  la manifestazione in maniera autonoma, inneggiando alla “Resistenza Rossa” ( De Luna 1995). Non sempre consapevolmente,  gli studenti più radicali erano più prossimi alla tradizione azionista che a quella comunista.  A partire dal ’69, dall’ “autunno caldo” alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre, lo scontro con le forze neofasciste e i poteri occulti era di nuovo all’ordine del giorno. Gli anni ’70 sono stati quelli del grande cinema civile dei fratelli Taviani, di Bertolucci e di tanti altri. C’era richiesta di un passato capace di rinvigorire identità collettive.

Ma sempre più  sarebbero cresciute le pressioni della politica sulla memoria,  a partire dall’anticomunismo di Craxi e del “pentapartito”, fino alla   debacle di un intero ceto dirigente con “Mani pulite”. Con la fine della prima repubblica si facevano strada  nuovi attori politici come Lega Nord e Forza Italia, del tutto privi di legami col patrimonio storico dell’antifascismo resistenziale, addirittura favorendo alleanze con quanto rimaneva della tradizione neofascista.  Si cercava un rinunciatario senso comune volto ad appiattire i valori, con patteggiamento a somma zero fra vittime e carnefici. Negli anni ’90 si rinvigoriva l’onda lunga del neomoderatismo liberista e affaristico sempre più intenzionato a seppellire la Resistenza e a mettere le mani sulla Costituzione democratica da essa derivante. Un esempio paranoico di revisionismo fascistissimo: furono i comunisti che imposero la guerra civile ai capi della Repubblica sociale  ( Buscaroli, “Il Giornale”, 25 aprile 1995). I continui riposizionamenti politici spingevano alla riscrittura della  storia per favorire nuovi vincitori,  con identità alleggerite dai pesi del passato.  Si facevano strada i professionisti dell’anti-antifascismo, con la tecnica della insinuazione  e l’uso della storia come supermarket  dove si può pescare a caso.

 

7)  Lo sdoganamento degli eredi di Salò e l’ombra lunga delle foibe

 

 

Gli eredi di Salò si giocavano sempre la speculazione sciagurata sulle foibe, alla fine promuovendo un “giorno della memoria” del tutto decontestualizzato. “Si ammazza troppo poco”, aveva ammonito nel 1942 il generale Mario Robotti, comandante del corpo d’armata italiano in Slovenia e Croazia, e il suo superiore Mario Roatta rincarava la dose: “Non dente per dente, ma testa per dente”. L’Italia fascista già dagli anni ’20 aveva spadroneggiato ferocemente nei Balcani: “di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”. Il colonialismo negli anni ‘30  si era già impegnato ad annientare la lingua e tutte le espressioni della la cultura slovena, con la scomparsa dei cosiddetti “allogeni”. L’italianizzazione forzata comportava inevitabilmente l’equivalenza tra l’Italia e il fascismo, conducendo la maggior parte degli slavi a rifiutare tutto ciò che appariva italiano.

Nel pieno della guerra,  l’Italia fascista avrebbe reagito alla resistenza jugoslava, albanese e greca con brutale durezza: rastrellamenti, villaggi incendiati, esecuzioni sommarie, internamento di migliaia di civili in 200 campi di prigionia, particolarmente famigerato quello di Arbe, con 7541 internati (il comandante Caiuli verrà catturato e condannato a morte dagli stessi internati). Molti slavi venivano internati anche in campi italiani, come quello di Gonars e Renicci.  Anche quelli della divisione “Granatieri di Sardegna” avevano bruciato villaggi e compiuto stragi di civili. Il  battaglione”toscano” scatenava un pogrom contro la comunità ebraica di Spalato.Nella lista dei criminali di guerra italiani, i primi erano il  generale   Biroli e  Roatta,  quello  che aveva prescritto ai suoi uomini il ripudio della frase “bono italiano”, suscitando con  feroci repressioni un fiume d’odio etnico. La politica fascista aveva creato i prodromi della selvaggia vendetta slava delle foibe.

 

8)  Gli scoop degli arditi e i cedimenti della sinistra

 

 

Negli anni ’90 si registrava lo  scoop farlocco di “Panorama” su Togliatti massacratore di soldati italiani in Russia (tremenda fù quella ritirata, contrappasso tuttavia di una sciagurata avanzata) e sarebbe stato utile rileggere il discorso di Benedetto Croce tenuto a Bari il 28 gennaio 1944, pochi mesi dopo la manipolata lettera di Togliatti. Il filosofo liberale spiegava: abbiamo desiderato la sconfitta della Patria in guerra, perché cercavamo “ansiosi la formazione dell’avvenire migliore dell’Italia non già nei successi militari del cosiddetto Asse,  ma nei progressi lenti e faticosi dell’Inghilterra e poi della Russia e dell’America”.

Ma anche all’interno della sinistra si apriva una breccia,  con gli interventi   di Violante  sui “ragazzi di Salò” (che avevano alle spalle uno Stato illegittimo che garantiva loro vitto e alloggio in quanto agenti del potere dominante) al seguito della marcia  stragista del maledetto battaglione di Reder. Di seguito la rampogna , del tutto decontestualizzata,  sulle foibe. Non mancavano il D’Alema   dispiaciuto per la fucilazione di Mussolini e il mea culpa di Fassino  per i silenzi della sinistra . Al seguito il  sindaco di Roma Rutelli, che voleva dedicare una via al gerarca Giuseppe Bottai, e il sindaco Illy di Trieste , che proponeva di sostituire il 25 aprile con un altro giorno di festa .  Si invocava una coscienza nazionale pacificata. Ma se tutti i morti sono eguali, non sono eguali le ragioni per cui si muore. Non possono essere parificati l’aggressore e il resistente. Chi difende una dittatura non sarà mai uguale a chi la combatte. Nel 2004 si arrivava alla proposta di legge n.2244 per il riconoscimento della qualifica di militari belligeranti ai collaborazionisti di Salò. “Facciamo pari e patta e non se ne parli più”.

 

9)  Il comun denominatore dell’Europa

 

Come ha scritto Marco Brunazzi, tutti i partiti democratici d’Europa, sia di destra che di sinistra, hanno nella comune lotta contro il fascismo l’elemento unificante della loro identità. Era il comune ideale di un conservatore inglese come Churchill e di un nazionalista  francese come De Gaulle. La sola proposta di equiparare i combattenti per la libertà a quelli dei regimi collaborazionisti, susciterebbe uno scandalo senza precedenti a Bruxelles come ad Amsterdam, a Oslo come a Praga, a Belgrado come ad Atene. Si diceva in Germania che il nazismo era il passato che non passa. Paradossalmente solo in Italia qualcuno voleva far passare l’antifascismo come sinonimo di faziosità. La storia diventava la notte in cui tutti i gatti erano bigi. Come ha scritto Italo Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno, “quel peso di male che grava su tutti noi e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti , che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione,  Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra”.

Nessuno storico ha goduto come De Felice del sostegno costante dei mass media, tanto da poter intervenire ambiziosamente nel dibattito politico, invocando una riscrittura della Costituzione repubblicana in direzione del superamento del suo carattere antifascista e promuovendo l’abolizione della disposizione transitoria che vietava la ricostituzione del partito fascista. Singolare era la pretesa della vulgata defeliciana : il fascismo poteva essere studiato solo dagli afascisti e non dagli antifascisti partigiani . Si promuoveva  la divaricazione tra nazismo e fascismo, di quest’ultimo ammorbidendo sempre più i tratti truci e foschi, strizzando l’occhio agli apatici, opportunisti e “attendisti” di sempre, trattando con sufficienza la “baracca resistenziale”. La dittatura sembrava quasi nata per caso, anzi il fascismo forse non era mai esistito, secondo la battuta di Emilio Gentile. Si è trattato di un progressivo salvataggio del fascismo, proponendone una immagine sempre più  edulcorata e mettendo fra parentesi le orribili efferatezze del regime in Africa come nei Balcani, velando anche la persecuzione antisemita. Anche con l’istituzione del “Giorno della Memoria” non sono mancate le operazioni di mascheramento: in Italia si potevane scegliere altre date per noi più coinvolgenti come per es. il decreto di espulsione degli ebrei  dalle scuole e dalle Università.  Una strategia omissiva è stata per fortuna  arginata da vigorosi presidenti della Repubblica, a partire da Scalfaro, “non è possibile riconciliare la tirannide con la libertà”, fino a Ciampi e Napolitano.  Si pretendeva di riscrivere la storia non misurandosi con la comunità scientifica internazionale, ma semplicemente riscrivendo  i nomi delle strade,  dedicati a gerarchi e antisemiti, mentre il Consiglio Regionale del Lazio proponeva bizzarre “commissioni di esperti per il controllo sui testi scolastici”. Intanto documentari come Fascist Legacy della BBC e pubblicazioni come L’olocausto rimosso dell’americano Michael Palumbo non venivano rese accessibili al pubblico italiano.

 

 

10)   I partigiani e la grancassa del reality

 

 

In una storia sempre più manipolata e banalizzata tendeva a scomparire non solo l’antifascismo, ma l’intero dramma di un popolo all’interno della più grande guerra mai combattuta. I partigiani  in seguito sarebbero  stati dai revisionisti  criminalizzati  per la drammatica resa dei conti nei giorni successivi alla Liberazione, quando ancora si dava la caccia ai fascisti (come nel resto d’Europa)  mentre formazioni clandestine anticomuniste erano ben operative. Si doveva scontare l’intreccio di ben tre guerre: una patriottica contro gli invasori, una civile contro i fascisti, una di classe contro il capitale (Claudio Pavone) . Una esperienza che non trovava riscontri negli altri paesi belligeranti: un paese occupato da ex alleati vendicativi e poi da ex nemici liberatori ma scettici nei confronti dei “liberati”.  Strani giorni, con una Italia alla rovescia. Con l’amnistia i fascisti uscivano dalle carceri mentre i partigiani si ritrovavano ai margini della società. Negli anni ’80 ,  nello sciagurato calderone del terrorismo,  la pappa panrevisionistica poneva sotto processo  anche Mazzini e il Risorgimento. De Felice pensava di costringere gli italiani a riconciliarsi con il proprio passato, una proposta che nella nuova Germania sarebbe stata considerata da galera. Il fatto è che De Felice era in profonda sintonia con il fondo conformistico e autoassolutorio dell’ideologia dell’italiano medio, poi incarnato dall’uomo nuovo della provvidenza, il re del Bunga Bunga con la sua giuliva incultura: “Mussolini ha fatto qualcosa di buono, non ha mai ucciso nessuno,  i confinati nelle isole facevano i turisti”. Certo ha commesso degli errori”… Ma chiamiamoli con il loro vero nome: crimini di guerra. Del fascismo, in tempi comodi a bassa tensione morale, il berlusconismo rimane l’equivalente funzionale e postmoderno, fondato sulla legalizzazione del privilegio e sul dominio dell’immagine. Il comitato del malaffare e la fascistizzazione del reality.  Quanto al 25 aprile, dice Eco: “Il discorso è talmente ovvio che fa specie ripeterlo: c’è stato un confronto tra totalitarismo e democrazia, per fortuna ha vinto la democrazia, questo valore non può essere rinnegato, e il 25 aprile non festeggia le violenze di prima e di dopo, ma il ritorno del regime democratico. Punto e basta.

 

La guerra della memoria o una memoria di comodo

Il nostro tempo sembra prigioniero di un incantesimo: la dimensione della storicità è cancellata, la memoria collettiva è uno schermo dove una regia anonima fa scorrere immgini casuali. Ma si può vivere il presente senza concepire il futuro, senza tenere conto del passato? Insomma, a che serve la storia? Siamo quello che ricordiamo, come singoli e come collettività.  Mestiere  delicato e rischioso, appassionante e difficile, quello dello storico: perché il passato è un paese sconosciuto per chi vi si avventura, non può essere ridotto a gita turistica. Molti considerano il mestiere dello storico in via d’ estinzione, anche se la storia ridonda ovunque, dagli sceneggiati televisivi alle vetrine dei bestseller. Ma a raccontarla non sono più nè le scuole né le accademie, ma la verità “autoritaria” della fiction, indifferente al dubbio e alla prova documentale. La storia viene offerta come un fatto eccitante, dove la verità appare negoziabile. Proliferano storie e controstorie fantasiose nella dimensione liquida di una frontiera lungo la quale si perdono i contorni fra vero e falso. Un nuovo senso comune trova ampia eco nella rete, spregiatrice di una storiografia professionale, magari sospettata di complottismo, quando il vero rischio per la storiografia italiana è quello del marginalismo rispetto la comunità sovranazionale, una storia “italiota” incapace di misurarsi con i grandi scenari internazionali.

Una fase probabilmente transitoria, condizionata dal generale rimpicciolimento degli orizzonti che caratterizza  l’anchilosato sistema Italia (si veda il dibattito storiografico in “La Repubblica”, 6 febbraio 2014). Ancora e sempre devono riemergere le ragioni per cui la Resistenza, quel grande moto di popolo, nonostante i falsi storici e i capovolgimenti di una realtà vissuta, continua a produrre sentimenti, ragionamenti e spinte ad agire nel presente. Quella pagina di storia deve continuare ad essere una storia che non passa. In ogni ricorrenza della Festa di Liberazione risuonerà un canto che non muore, quello composto su un foglietto staccato da un ricettario del medico Felice Cascione, pochi giorni prima di essere trucidato dai fascisti il 27 gennaio 1944.  Una prescrizione per l’anima:  Fischia il vento / urla la bufera/ scarpe rotte eppur bisogna andar…


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