I rapporti di lavoro tra contratti di diverso livello

4 Aprile 2015 Lascia un commento »

 

 di Giovanni Battafarano

   Considero una scelta felice di Laboratorio Lavoro aver scelto come tema “Il lavoro tra persona e capitale”. Il tema della persona che lavora è molto fecondo e tale da costituire un punto di congiunzione delle elaborazioni  della cultura cattolica- Si pensi alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI- e della cultura di sinistra, si pensi a Bruno Trentin e a Mario Tronti. Abbiamo alle  spalle un trentennio di teoria e prassi neoliberista, in cui il valore della persona che lavora è  stato abbastanza sacrificato sull’altare di una finanza sempre più aggressiva e spregiudicata e in cui i dislivelli sociali sono paurosamente aumentati. Tony Judt, nel suo “Guasto è il mondo”, ricorda che nel 1968 l’Amministratore delegato della General Motors guadagnava 66 volte più del suo dipendente medio; oggi l’Amministratore delegato della Walmart  guadagna novecento volte in più del suo dipendente medio. Thomas Piketty, nel suo fortunato “Il capitalismo nel XXI secolo”, analizza scientificamente l’accumulo  dei grandi patrimoni  e l’impoverimento dei ceti popolari e  medi, tendenza che indebolisce le basi sociali della democrazia. Valorizzare il lavoro tra  persona e capitale significa ripristinare un circuito virtuoso, tanto più necessario se si vogliono cogliere i primi sintomi di ripresa ed uscire dalla crisi.

Su questa base, vorrei approfondire il tema che ci è stato proposto. Tradizionalmente, il sistema italiano di relazioni industriali si è fondato sulla centralità del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL), con spazi limitati per la contrattazione di secondo livello. Il punto di svolta è costituito dal Protocollo del 23 luglio 1993 tra Governo e Parti sociali, che attribuisce al CCNL  il compito di definire il quadro normativo di utilizzo dei lavoratori e di preservare il potere d’acquisto dei salari, attraverso un meccanismo basato sull’inflazione programmata. Al secondo livello, si attribuisce la facoltà di introdurre eventuali aumenti salariali, contrattati a livello territoriale e aziendale, legati a guadagni di produttività, mentre la rappresentanza sindacale, in base all’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993, viene  legittimata dal voto di tutti i lavoratori. Il merito maggiore del Protocollo del 1993 è di aver unito Governo e forze sociali in un grande impegno per ridurre il tasso di inflazione, obiettivo effettivamente realizzato.

Tale assetto è stato fortemente indebolito dalle iniziative del Gruppo FIAT, a partire dalla firma il 29 dicembre  2010 di  un contratto separato sostitutivo del CCNL e  successivamente  dall’uscita da Confindustria e dal recesso da tutti i contratti e accordi vigenti. Per questa, ma anche per altre ragioni, si accentua l’erosione del CCNL,  a vantaggio di una maggiore autonomia della contrattazione decentrata. Di fronte a questa offensiva FIAT, le forze sociali, in particolare Confindustria e CGIL CISL UIL, si pongono il problema di individuare le regole per il governo delle relazioni industriali. L’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 prevede la certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali sulla base della combinazione tra dati associativi rilevati da INPS e dati di consenso elettorale raccolti da CNEL. La successiva Intesa unitaria sulla rappresentanza (31 maggio 2013)  introduce regole per rendere vincolante ed esigibile il CCNL.

Può essere utile, a questo punto, soffermarsi sul ruolo che il Governo, o meglio, i vari Governi hanno esercitato nel rapporto con le forze sociali. Dopo i primi approcci nel corso degli anni Ottanta,  ai primi anni Novanta si afferma in Italia la politica di concertazione tripartita tra Governo, rappresentanza delle imprese e organizzazioni sindacali, sulla scia anche di esperienze similari in Europa, in particolare in Germania e nei Paesi scandinavi. Ho ricordato il Protocollo del luglio 1993, cui il Governo Ciampi diede un grande impulso. Una fase successiva con il Governo D’Alema nel 1998 vede una strutturazione molto dettagliata della concertazione, mentre la terza fase è quella con il Governo Prodi (2006-08),  che porta al varo del Protocollo del welfare nel luglio 2007, che sarà validato dal voto di 5 milioni di lavoratori e successivamente tradotto nella legge 247/2007. Dopo questa stagione, la concertazione viene abbandonata sia per l’ostilità dei Governi di centro- destra sia per le sopraggiunte divisioni sindacali. Diventa sempre più frequente la firma di Accordi separati che escludono la CGIL , mentre le stesse intese tra le parti sociali stentano ad avere conseguenze pratiche, anche per il mutato atteggiamento governativo. Con i Governi successivi, si passa gradualmente dalla concertazione al dialogo sociale, alla consultazione, alla mera informazione e infine alla mancanza di relazioni. Penso che tra la concertazione invasiva degli anni Novanta e il nulla di oggi, si può individuare una soluzione intermedia. Sarebbe saggio coinvolgere  le forze sociali e professionali in un grande impegno per uscire dalla crisi e promuovere la ripresa e la crescita dell’occupazione. Converrebbe fissare tempi certi e materie precise su cui si concerta o si consulta o si informa. Il Paese guida in Europa, la Germania, non mortifica, anzi valorizza il ruolo delle forze sociali e professionali.

Tornando ora agli interventi per accrescere la contrattazione collettiva decentrata, oltre il già citato Accordo unitario del 28 giugno 2011, va ricordato l’art.8 del d.l. 138/2.011, poi legge 148, che attribuisce alle intese aziendali e territoriali la possibilità di derogare in termini peggiorativi non solo al CCNL di categoria, ma anche alle previsioni di legge. La successiva Intesa sulla produttività (nov.2012 senza la CGIL), stabilisce che il CCNL può destinare una quota di aumenti economici al riconoscimento dei premi di produttività. L’Accordo del 2013 (con CGIL) si concentra sulla flessibilità degli orari come parametro al quale collegare l’erogazione dei premi di produttività. Quanto alle risorse per incentivare gli accordi di produttività, si passa dallo stanziamento iniziale di 650 milioni di euro, ai 368 milioni del 2013, ai 208 del 2015 e 200 del 2016. Si può ricavare che il sistema introdotto nel 1993 ha permesso di ridurre l’inflazione, ma la contrattazione aziendale è rimasta debole specie nelle piccole imprese, nei servizi e in generale nel Sud, anche perché la deludente dinamica della produttività ha ridotto le risorse da distribuire a livello locale. Eppure il decentramento contrattuale facilita la sperimentazione di pratiche organizzative innovative. I dati INVIND 2010 confermano il collegamento diretto tra performance aziendale e incrementi retributivi concessi. Tuttavia una quota significativa di imprese si dichiara insoddisfatta degli attuali assetti contrattuali e disposta invece a siglare accordi per una maggiore flessibilità nell’utilizzo della mano d’opera in cambio di retribuzioni maggiori o garanzie occupazionali per i lavoratori. Scarsa fortuna riscuote l’art. 8, per l’incertezza normativa e i rischi di contenzioso.

C’è poi il problema legato alla stipula e alla vincolatività delle intese. I criteri per la misurazione della rappresentatività non sono operanti, mancando le convenzioni con INPS e CNEL. Un intervento legislativo, che ha funzionato bene nel pubblico impiego, permetterebbe di fissare criteri oggettivi per determinare i soggetti legittimati alla contrattazione, le procedure per l’approvazione delle intese e rendere vincolabili ed esigibili gli accordi così approvati.  Il Governo Renzi ha dichiarato di voler occuparsi del problema, ma sappiamo  che su questo punto ci sono divisioni nel sindacato. Va ricordata infine l’articolazione frammentata del nostro sistema di relazioni industriali, oltre quattrocento contratti collettivi di categoria. Un processo di  accorpamenti contrattuali potrebbe facilitare il decentramento. Non sfugge infine che gli sgravi possono prestarsi a comportamenti elusivi, con scarse ricadute sulla produttività. Il D.PC.M. gennaio 2013 stabilisce un nesso tra retribuzione e indicatori di produttività e rafforza il monitoraggio delle misure di detassazione, monitoraggio finora non realizzato nella pratica. Sarebbe utile una autocertificazione on line dell’impresa per usufruire delle agevolazioni. Questa fonte informativa potrebbe servire per valutare  l’efficacia degli incentivi e individuare e diffondere le migliori pratiche. E’ da segnalare infine che un recente seminario del CNEL (dic.2014) ha messo in rilievo che la contrattazione integrativa individuale viene stimata al 40% del totale, una misura elevata che sottrae al sindacato la rappresentanza dei lavoratori specie per gli aspetti di natura retributiva. Sarebbe interessante approfondire le categorie professionali in cui la contrattazione individuale gioca un ruolo maggiore.

Concludo con un rapido passaggio sugli sgravi contributivi e fiscali stabiliti dalla legge di stabilità 2015. Com’è noto, gli incentivi triennali sono limitati alle assunzioni effettuate nel 2015. La Fondazione consulenti del lavoro ha calcolato che in caso di un milione di assunzioni, le risorse stanziate sarebbero sicuramente inadeguate. Per evitare di determinare una fiammata occupazionale e un successivo raffreddamento una volta terminati gli incentivi, sarebbe opportuno rendere strutturale il taglio del costo del lavoro. Ridurre il costo del lavoro e accrescere la produttività sono obiettivi indispensabili se si vuol puntare seriamente all’uscita dalla crisi.

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