Senza il vento della storia

5 Gennaio 2015 Lascia un commento »


Nell’era del cambiamento, è più efficace chiudersi a riccio o, come la volpe, adattarsi alle varie situazioni o fornire le diverse risposte dicendo, comunque sempre la verità? E’ il quesito che Franco Cassano pone alla sinistra nel suo “Senza il vento della storia- La sinistra nell’era del cambiamento”, Bari, Laterza, 2014.

Se la sinistra vuol essere fedele ai propri valori, non può limitarsi a guardare ad un modello di insediamento sociale che non c’è più. Oggi il confronto-scontro politico non si inscrive più solo secondo la vecchia dicotomia capitale lavoro, destra sinistra. Terminata la contrapposizione USA URSS, balzano o tornano prepotentemente alla ribalta nuove “cleavages”, nuove linee di frattura nazionali, etniche, religiose, tipo fondamentalismo islamico versus Occidente. Con tali contraddizioni occorre misurarsi, nella consapevolezza che esse determinano divisioni anche nel mondo del lavoro, tradizionale insediamento sociale della sinistra.

 

    Tale insediamento sociale risale alla stagione delle conquiste  realizzate durante i Trenta gloriosi (1945-75), il secolo socialdemocratico, come fu definito da Ralf Darendhorf. Allora, con il vento della storia favorevole, fu realizzato il punto più alto del compromesso tra capitalismo, democrazia, lavoro, con appropriate politiche redistributive, sviluppo dei servizi pubblici come sanità e scuola, ruolo attivo delle organizzazioni sindacali attraverso le politiche di concertazione.  Con la successiva stagione del neoliberismo, avviata a livello culturale dalla Trilateral e dalla scuola di Chicago, e, a livello politico, dai governi della Thatcher nel Regno Unito e di Reagan negli USA (1979-80), si smantellano buona parte di quelle conquiste; si indeboliscono le politiche pubbliche, si espande il ruolo della finanza a danno dell’economia reale; si accresce il divario tra i redditi più elevati e i livelli più bassi del lavoro dipendente. Tuttavia, dice Cassano, la stagione del finanzcapitalismo  non è un mero ritorno all’indietro. In questa stagione, si registra un’intensa crescita nei Paesi emergenti; si afferma il protagonismo dei BRICS (Brasile Russia India Cina Sudafrica); il G7 si allarga a G20, la redistribuzione si realizza non più all’interno dei Paesi sviluppati, ma a livello internazionale, non a caso diminuisce il divario tra il reddito medio dei Paesi ricchi e quello dei Paesi emergenti. Insomma, un capitalismo barbaro, cinico, vitale, giovane ha prodotto sviluppo, smentendo clamorosamente le teorie circolate in settori della sinistra negli anni Settanta riguardanti crolli, crisi crescenti, stagnazioni.

 

  Di fronte alla crescita tumultuosa del turbo capitalismo, la sinistra europea si è trovata a giocare sulla difensiva, più preoccupata di conservare che di innovare; ha visto restringersi la sua base sociale e ha perso la capacità di rappresentare gli ultimi; ha dovuto prendere atto della concorrenza che si determinava tra i lavoratori dei Paesi sviluppati e i lavoratori dei Paesi emergenti. La crisi del welfare ha diviso gli inclusi e gli esclusi nel sistema di protezione; spesso il diritto al lavoro si è trovato in contrasto con la salvaguardia dell’ambiente naturale; l’espansione dei diritti ha dilatato certi spazi e ne ha compresso altri; la doverosa accoglienza dei migranti provoca contrasti in settori popolari preoccupati per la sicurezza e per il posto di lavoro. Di fronte a tali contraddizioni, non servono rimozioni o alzate di spalla, semmai un paziente lavoro politico e adeguate strategie urbanistiche, sociali, formative.

 

 Analizzare in modo obiettivo le caratteristiche del capitalismo nell’era della globalizzazione, non significa accettarlo passivamente. Diritto e politica democratica non sono finiti, ma devono dimostrarsi capaci di governare questo passaggio. Occorre impegnarsi nella “costruzione del popolo” o, come dice Magatti, individuare i “nuovi ceti popolari”; mettere insieme forze, che magari in passato hanno giocato in squadre diverse: il mondo dei diritti,, l’impresa produttiva, la cultura; misurarsi con le nuove “quistioni” gramsciane di oggi:              diritti ambiente sicurezza solidarietà la parità di genere, i nuovi ceti sociali; prestare più attenzione alla tematica dell’individuo, stretto tra precarietà, flessibilità, lavoro autonomo di seconda generazione, capitalismo personale; l’individuo che diventa persona, un concetto caro alla cultura cattolica come anche a quella della sinistra (Trentin, Tronti). Non essendoci più un aggregato sociale unificante (la classe operaia dei Trenta gloriosi), si rende necessario costruire una squadra “larga” e realizzare convergenze tra convenienze diverse: la politica non come riassunto dell’esistente, ma come scelta di discontinuità. Abbiamo bisogno di uno Stato né padrone né “madrone”, cioè disinvolto dispensatore di risorse pubbliche sempre più esigue: uno Stato agile, selettivo, uno Stato innovatore, come sostiene Mariana Mazzucato. Abbiamo bisogno di una rinnovata politica riformista, con una forte leadership, ma anche una robusta cultura del cambiamento. “Si può continuare a dire la verità solo se si lascia la vecchia risposta e si prova a cercarne una nuova”(p.89).

 

  Vorrei segnalare nel saggio di Cassano questo forte invito a misurarsi con la realtà (Machiavelli invitava ad andare dietro la realtà effettuale e non inseguire principati e repubbliche immaginarie). Apprezzabile è anche l’analisi differenziata del capitalismo nell’epoca della globalizzazione, speculazione e facili arricchimenti, ma anche forte impulso alla crescita nei Paesi emergenti. Spetta alla sinistra di oggi sfuggire alla trappola nostalgia del passato e demonizzazione del presente e costruire cultura politica riformista, alleanza “larga”, forte leadership per fornire una risposta innovativa nell’era del cambiamento.

 

  Giovanni Battafarano

 

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