Quanto capitalismo può sopportare la democrazia?

2 Gennaio 2015 Lascia un commento »

Quanto capitalismo può sopportare il sistema democratico? E’ il tema di fondo dell’evento editoriale dell’anno, (THOMAS PIKETTY, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014). Piketty, giovane economista francese, lodato da due Premi Nobel per l’economia come Stiglitz e Krugman,  prende in esame il tema della disuguaglianza  nel corso degli ultimi due secoli, analizzando i dati di archivio, a partire da quelli di Francia e  Regno Unito, ma attingendo anche alla grande letteratura del primo Ottocento.

Senza la pretesa di dar conto del contenuto di un libro di oltre 900 pagine, approfondiamo  il filo conduttore dell’imponente ricerca. Nella prima metà del XIX secolo, il peso dell’eredità nella ricchezza prevale di gran lunga rispetto anche al più qualificato reddito da lavoro. In Papà Goriot di Balzac, Vautrin consiglia al giovane ambizioso Rastignac di sposare la ricca ereditiera Victorine piuttosto che puntare alla carriera di avvocato. La ricchezza dell’epoca è essenzialmente rendita fondiaria e titoli di Stato, si rivaluta annualmente del 5% , è alimentata anche dagli attivi coloniali e può contare su una tassazione inesistente o comunque molto bassa. La crescita della disuguaglianza si mantiene per tutto il secolo XIX  e il primo decennio del  secolo successivo: l’Europa, in particolare Francia e Regno Unito, costituiscono l’area maggiore della disuguaglianza, mentre gli Stati Uniti, dove l’incidenza delle eredità è meno forte, rimangono più fedeli ai valori egualitari dei Padri Fondatori.

Le guerre mondiali, con il tragico carico di morte e distruzione, il dilatarsi del debito pubblico e la  crisi del 1929-30, riducono la disuguaglianza e spingono gli Stati ad introdurre l’imposta progressiva sul patrimonio e l’imposta di successione. Durante il new deal di Roosevelt negli anni Trenta e immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, la tassazione sui redditi alti o altissimi raggiunge livelli anche del 50, 70, 80%. Nei Trenta gloriosi (1945-1975), inoltre,  si consolida lo Stato sociale, si afferma il ruolo pubblico nell’economia, si realizza una forte redistribuzione dei redditi a favore dei ceti popolari, si consolida la tassazione progressiva,  si determina una riduzione delle disuguaglianze. In altre parole, si attua un compromesso alto tra capitalismo, democrazia, lavoro.

Verso la fine degli anni Settanta, comincia la controffensiva delle forze conservatrici. La scuola austriaca (Hayek, Mises, Shumpeter) e quella monetarista di Chicago (Milton Friedman) e , a livello politico, la Thatcher e Reagan, sostengono che lo Stato sociale determina un sovraccarico della domanda; che l’economia deve essere libera da lacci e lacciuoli; che la crisi degli anni Trenta andava affrontava con opportune politiche monetarie, senza metter in piedi un costoso intervento pubblico. La conseguenza di tale impostazione è l’indebolimento  del ruolo dello Stato con l’ondata delle privatizzazioni e la forte riduzione della tassazione sui redditi più alti: dall’80% di Roosevelt si scende al 35% dei Bush; gli Usa accantonano l’egualitarismo dei padri fondatori e diventano, insieme con il Regno Unito, il Paese  del massimo della disuguaglianza, anche perché il più disponibile verso una sorta di estremismo meritocratico: le retribuzioni dei top manager, insieme con il fenomeno delle stock options, determinano la rapida ascesa di un nuovo ceto di ricchi professionali. Nel 1968, l’amministratore delegato della General Motors portava a casa circa sessantasei volte più di quello che guadagnava il normale operaio alle sue dipendenze, oggi l’amministratore delegato di Walmart guadagna novecento volte quello che prende il suo operaio medio. Il Rastignac di oggi, oltre che sposare la ricca ereditiera, potrebbe scalare la società con una fortunata carriera manageriale. Ciò che avviene nei Paesi anglosassoni, si verifica in forma attenuata anche nei Paesi europei e in Giappone: l’imposta progressiva sul reddito o sul capitale scompare o si attenua molto, ritorna la tassazione proporzionale (flat tax), la disuguaglianza torna ad impennarsi. La rinuncia degli Stati ad una efficace ed equa politica fiscale determina il formarsi di imponenti debiti pubblici: piuttosto che far pagare le tasse, gli Stati si accollano debiti elevati, che richiedono il pagamento di interessi  elevati. La crescita smisurata dei patrimoni diventa non solo un problema sociale ed etico, ma anche economico. Troppo capitalismo soffoca il capitalismo e determina una stasi nello sviluppo; una crescita debole accentua a sua volta la crescita delle disuguaglianze.

Di fronte a questa involuzione dell’economia della globalizzazione, la proposta di Piketty è chiara. Occorre un nuovo compromesso tra capitalismo, democrazia, lavoro basato su: imposta progressiva sul capitale, sul reddito, sulle successioni, possibilmente su scala internazionale, o almeno europea; scambio automatico   delle informazioni bancarie internazionali; dichiarazioni fiscali precompilate; catasto aggiornato ai valori di mercato di tutte le forme di capitale, immobiliare e finanziario. La progressività potrebbe partire dall’ 0,1% sulla proprietà più piccola al 1% per il capitale superiore a un milione di euro; al 2% sopra i 5 milioni e così via. Una scelta trasparente che evita sia il rischioso ricorso all’inflazione sia un ulteriore indebitamento. Quanto all’Europa, la politica di austerità ha fatto fallimento, l’area euro arranca, la crescita è sempre più lontana. Non basta l’unione monetaria, occorre coordinare le politiche fiscali evitando la concorrenza  al ribasso per attrarre i capitali e dare una rappresentanza democratica all’area euro, che deve decidere le scelte coraggiose da attuare per uscire dalla crisi e rilanciare il processo di unità europeo.  Le nuove entrate pubbliche serviranno per implementare le politiche  per la formazione e  avviare una riconversione ecologica dell’economia europea.

Il libro di Piketty è uno straordinario inventario di analisi e proposte. Ha il merito di offrire un’alternativa scientifica e non ideologica al declinante, ma sempre potente modello neoliberista. Se si vuole salvare l’economia di mercato, occorre guardarsi dagli eccessi del capitalismo globalizzato e intervenire decisamente contro la disuguaglianza. La rinunzia alla riforma del capitalismo rischia di portare le democrazie occidentali in un vicolo cieco.

Giovanni Battafarano

Pubblicità