A proposito di monumenti ai caduti

15 Luglio 2015 Lascia un commento »

 In un suo scritto per Siderlandia, Salvatore Romeo ha invitato a non sottovalutare il ruolo della funzionalità monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel quadro anche di una tormentata disputa sulla monumentomania dei cosiddetti “neo spartani”. Secondo Romeo,  quando si parla di monumenti non si può considerare solo l’aspetto estetico, ma anche la funzionalità politica. George L. Mosse considerava la “monumentalizzazione” come uno degli aspetti caratteristici del processo di costruzione di una comunità. Naturalmente,  se non vogliamo considerare all’ingrosso l’erezione di una  qualunque stele,  secondo l’ottica della antropologa Ida Magli,  come un inequivocabile  trionfo fallico,  non possiamo trascurare la  specificità estetica di un manufatto,  un significante che intende supportare un investimento emozionale,  più o meno vocazionato alla universalità. Quanto abbiamo scritto in altra sede concerneva semplicemente la forma espressiva, vistosamente fallimentare di alcune eccentriche proposte,  vagheggiate fra i due mari dal club dei cosiddetti “neospartani” e insonni cartapestai.

Nell’attuale fase celebratoria sulla memoria delle vittime della Grande Guerra,  può essere interessante ripercorrere la vicenda ultratrentennale, tormentata ma anche comica, del colosso dominante l’attuale Piazza della Vittoria. Il vero caduto o almeno infortunato, sul bronzeo campo di battaglia,  doveva essere l’onesto scultore Franco Como,  combattente sul Carso ,  massone, discepolo del Maestro Ettore Ferrari,  repubblicano e angariato dai fascisti. Nel 1923 esplodevano pesanti contestazioni, con manifesti murali  anche malevoli ,  nei riguardi dello scultore.

L’impresa si era avviata  con un progetto dell’architetto Cesare Bazzani, che per fortuna doveva cadere nel dimenticatoio, risparmiando alla villa Peripato una delle tante aggressioni a mano armata. Nel 1919 Il Consiglio Comunale,  presieduto da Francesco Troilo,  faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato organizzatore . La prima questione doveva riguardare il sito,  con incertezze su piazza Archita.  La discussione riprendeva senza fretta nel 1921,  con l’amministrazione Delli Ponti. Le lapidi fiorivano a piacere: la più significativa veniva posta dalla presidenza del liceo Archita,  in memoria dei 52 studenti caduti. Si pensava ad un periodico cambio della guardia al monumento fra gli studenti.

Qualche personaggio di buon senso proponeva di investire quei quattrini in ospedali e orfanotrofi. Nel 1922, a ridosso della marcia su Roma, il clima diventava più battagliero. Posizionare il monumento in piazza Giordano Bruno, avrebbe comportato l’oscuramento della facciata dell’Arsenale e l’imbottigliamento della stessa Piazza. Nel 1923 partiva un concorso nazionale, convocando artisti di fama indiscussa. Risultava vincitore Francesco Como.  Gli oppositori sostenevano la tesi assurda che Como, vinto il concorso, dovesse lasciare ad altri l’esecuzione dell’opera: l’invidia degli sconfitti e la logica della mangiatoia.

Lasciando perdere la proposta della villa Garibaldi, tutti concordavano sulla necessità di una ampia superficie di sfondo. Tendenzialmente il monumento si orientava verso il centro di piazza della Vittoria,  progressivamente annientando i palmizi che circondavano la piazza. I lavori procedevano con moto uniformemente ritardato. Nel 1926 il Podestà Spartera sembrava  voler usare il pugno duro,  magari a colpi di francobolli e lotterie. In previsione della inaugurazione veniva soppresso il chiosco orinatoio di Piazza XX Settembre. Ma l’erigendo monumento ai Caduti attendeva sempre di essere inaugurato.

Il podestà “protempore”  Giovanni Spartera , diventava anche oggetto di lazzi e pasquinate di  piazza . Nel 1928 si decideva a convocare l’egregio scultore Guastalla di Roma (anch’egli onesto massone ) con l’incarico di esaminare lo stato dei lavori. Ma un anno dopo il Guastalla rinunciava all’incarico per comprensibili incompatibilità fra l’autore e il controllore,  ma anche per lo stato confusionale delle procedure. Nel 1934 veniva addirittura chiamato in giudizio per una poco edificante ricompensa richiesta per tre anni di lavoro. Alla fine veniva pagato irregolarmente e a rate.

Como aveva lasciato Taranto nel 1928 con un assegno mensile ad personam per tutta la durata dei lavori, ma dopo due anni il suo compito non era stato ancora ultimato. Nel giugno 1930 veniva troncato qualsiasi invio di denaro al Como,  compromettendo così il modello di argilla dell’Aquilifero, che prima si essiccava e poi finiva in frantumi. Con i fondi del tutto esauriti, Como avrebbe dovuto concludere i lavori pagando di tasca propria: una soluzione del tutto improponibile. Il povero Como si ritrovava in condizioni miserrime,  tanto da invocare l’interessamento del Sovrano. Durante le celebrazioni del 4 novembre non era stato neanche invitato e intanto si allargava sempre più il solco fra l’Artista e il Regime. Si arrivava comunque all’inaugurazione del 1930, con il monumento incompleto.

Nel marzo 1950 si riapriva la discussione sul completamento dell’opera monumentale, con interessamento dell’Associazioni Industriali e  (strano a dirsi) dei segretari della Camera del Lavoro della C.G.I.L.  Il Monumento fatturato a rate trovava  alla fine il suo completamento con il gruppo   detto “L’Aquilifero”, con il fiero sostegno della amministrazione comunista.  L’occhio esperto poteva leggere nell’opera i simboli massonici del triangolo, delle due colonne, del   sancta sanctorum del tempio, con la Dike che che raffigurava  il  fatidico numero tre. Il 18 ottobre 1953 si concludeva la trentennale vicenda: era trascorsa anche la seconda guerra mondiale e un monumento poteva ormai bastare per i due grandi conflitti. Quella volta,  alla celebrazione,  Francesco Como era presente. Non crediamo che l’opera di Como sarà apprezzata nei secoli a venire, come vaticinava il caro Giacinto Peluso. Crediamo che il vento fa il suo giro e che la storia cammina sempre per sentieri interrotti.

Al momento della inaugurazione,  l’opera era certamente un anacronismo. In quegli anni nessuno studente si sarebbe prestato al “cambio della guardia”,  secondo i desiderata dell’ex preside del Liceo: I  Beatles erano in arrivo. Gli omoni nudi con l’elmetto facevano impressione.   E invece,  negli anni Settanta, nella festa giovanile  della contestazione,  per i giovani tarantini e non solo,  quel monumento si trovava a  rappresentare l’ombelico del mondo. Quel bronzo era letteralmente avvolto da una folla di ragazzi vocianti e musicanti. I figli dei fiori  rendevano quel tetro cenotafio  un  rendez-vous  giovane,  cordiale,  capellone,  greco,  nemico della guerra:  uno spazio liberato di felice coabitazione fra i presenti e gli scomparsi. Un  happening libertario: lo spazio della antica Agorà.

Documentazioni in Giacinto Peluso: Una città un monumento, 1984.

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