Il bibliotecario e la sua ombra
Roberto Nistri
A cinquant’anni dalla sua scomparsa, Vito Forleo, il nostro maggiore scrittore municipale e indimenticato direttore della Civica Biblioteca “Acclavio”, per una volta è stato onorato come si conviene, in una città che purtroppo ha perso il filo della propria identità storica. Si sono registrati convegni di buon livello e soprattutto hanno trovato adeguata ristampa le sue opere, da tempo non facilmente reperibili: I giorni di Diogene Saturnino del 1904, Taranto dove la trovo del 1929 e una più completa riedizione dei Poemetti Municipali, già curati da Aldo Perrone e dal Gruppo Taranto.
Tornare ad ascoltare la voce dell’Autore, a seguire la traccia della sua penna fino all’ultimo inchiostro, quando le ali sono ancora gonfie di vento. E’ tale il più autentico omaggio alla scrittura: uno scrigno, quello di Forleo, che forse cela ancora preziosi segreti. Un classico, cioè un letterato di prima classe. Le sue paginette sono ancora offerte speciali, aquiloni che ogni tanto ritornano dagli intermundia, per insaporire le nostre povere scritture.
Custode della memoria, del tesoro più vulnerabile e aggredibile, Vito Forleo è stato il più significativo autore del primo Novecento tarantino. Uno spirito folletto, un inattuale per scelta, un Ufo, un oggetto letterario non facilmente identificabile. Come cifra stilistica, non amiamo l’onda lunga dei superlativi e l’eroicizzazione postuma di un nobile autore, come tanti impigliato nelle pastoie della più greve provincia meridionale. Conosceva il suo destino e se ne fece una ragione. Diventa ciò che sei, era il primo comandamento dell’amato Nietzsche. Mai un cedimento, fino alla fine della strada: Vivre sa vie (Questa è la mia vita).
Laureato in Legge, seguiva la sua vocazione di uomo-libro, gestendo in maniera ineccepibile la civica Biblioteca Acclavio: la Biblioteca del mare, con quelle tre finestre che Sandro Viola avrebbe ricordato con nostalgia. Con puntigliosità maniacale l’austero don Vito riempiva i cestini di minute cartacee da inviare giorno dopo giorno al Municipio, per arricchire la dotazione della Acclaviana. Ma In quelle stanze Forleo avrebbe scritto dell’Arcivescovo Capecelatro, dei Giardini del Peripato, di Choderlos de Laclos, di Paisiello, di Raimondello Orsini, del brigante Pizzichicchio e dei portentosi pesci di Taranto… Le pagine di Taranto dove la trovo racchiudono il libretto d’oro d’un grande erudito foderato di poesia.
Forleo scrisse pochissimo. Perché era un pigrone o perché aveva altro per la testa. A chi doveva rendere conto? Non era un personaggio popolare e non aveva nessuna intenzione di esserlo. Per i suoi concittadini era un inclassificabile, un romantico catafratto nella Biblioteca o nella sua celletta monacale zeppa di carte, al terzo piano, mentre “le rondini saettavano pazze di calore, nel cielo nostro d’oriental rubino”. Un atopos avrebbero detto i greci, un fuori posto ( per qualche tarantino, uno “spostato”) che ogni tanto lasciava cadere una perla di scrittura da conservare nella biblioteca celeste della tarentinità.
Il gentiluomo solitario era anche un uomo scisso, consapevole dell’impossibilità di essere veramente se stesso. Del resto, il secolo che si apriva, apparteneva a Marinetti, non a Forleo. Il misconosciuto campione del decadentismo europeo, era disposto a parlare solo con la sua ombra, il Doppelganger (colui che cammina al suo fianco). Il “doppio” di don Vito era il compagno segreto di sempre: quel Diogene Saturnino del suo capolavoro giovanile , il dandy che poteva solo portare in giro la sua noia, con la sigaretta incenerita sulla bocca: “un fiume di libidine cui mancava la foce di una cocotte, una amante da scegliersi in un pacco di cartoline illustrate, dai contorni indecisi come una polluzione notturna. Le idee si intorbidavano, mentre un lombrosiano esegeta predicava il Sinite parvulos, sottintendendo una tendenza pederastica del Redentore”.
Con il suo Diogene Saturnino , Forleo si era sbattezzato e ribattezzato in onore del primo anticonformista della filosofia, distruttore delle convenzioni sociali e derisore coriaceo e blasfemo. Il “nato sotto il pianeta oscuro”, secondo il dettato aristotelico, abbracciava melanconia e genialità, era un accidioso che, di fronte all’oggetto desiderato, fuggiva quando stava per raggiungerlo, desideroso di abbracciare l’inafferrabile, il fantasma o il fantoccio della libertà. L’homo melanconicus poteva riscattare la sua insania solo nella creatività, desiderando il desiderio, amando la germinazione, lasciandola scorrere nel non finito , nell’incompletezza di una immagine allo stato nascente.
Seduto al solito tavolino, coccolando il suo spleen, Saturnino scriveva ad un destinatario per sempre sconosciuto. Il cappellaccio prendeva le forme di un pipistrello mostruoso. Becchi di gas, mossi dal vento e battuti dalla pioggia, formavano nella lontananza una specie di costellazione piangente. Una ragazzina satanica gli chiedeva petulante cosa volesse dire la parola si-fi-li-de, e lui la rassicurava : “ una nuova marca di cioccolata”. Era il gioco del trickster, del dio briccone, un po’ clown e un po’ furfante. L’armatura della maschera dissimulava, con aristocratico riserbo, il volto dell’inviolabile.
Il Venerdì Santo era stato alleviato nel cavo di una mano inguantata. Il giorno di Pasqua, Saturnino si addormentava fra le strofe di Baudelaire, con voglia di un’arma da fuoco, pronto a schiaffeggiare la prima marionetta digerente che augurasse buone feste. Fuggi il “Mostro Viscido”, la “ maledetta Provincia”, se non vuoi bruciarti le cervella. Al massimo si potrebbe organizzare un Cenacolo: alla Presidenza lo scheletro di un brigante, nel cui cranio, forato da una pallottola, poter inserire una lampadina.
Si gira e rigira sulla parsimonia scritturale di Forleo. Perché non accettare che lui aveva altro a cui pensare? Faceva buchi nei sogni e non doveva render conto a nessuno. Neanche ai trombettieri del Duce e ai postulanti in cerca di medaglie a buon mercato. Come il Bartebly di Melville, sulla corazza del garbato ma implacabile “Preferisco di no”, doveva scivolare ogni offerta di complicità o compromissione. Forleo era il Resistente per eccellenza.
Il flaneur inseguiva il non consumato, nell’inevitabile commercio con gli spettri. Solo seguendo questa traccia è possibile sciogliere una aporia: voler scrivere qualcosa che facesse tremare il mondo e finire come un anacoreta, baciando la polvere dei libri. Quella era la duplicità del dandy superomista, che non si schiodava dal Caffè ai Due Mari, riconciliato con Taranto ma non con i tarantini.
Nel cinema si poteva ben fumare, spiando le complici braci nel tremolìo della magica lanterna. “Il Sahara! Il Sahara! “Seguire sulla sabbia le orme di Marlene Dietrich che seguiva le orme di Gary Cooper. Suprema ironia: l’unico esotico viaggio del bibliotecario doveva ridursi ad una striminzita villeggiatura a Rocca Forzata, ai confini della realtà, con l’uso di una sola modesta stanzetta. Magari in contemplazione di “ una luna con la faccia di una cuoca inebetita”. L’aura della pauperistica micragna di Forleo rimaneva un topos ricorrente, come quello dei quattro gatti al funerale.
Si conserva la bella lezione di un liber’uomo, che non avrà scritto molto, ma che non ha mai dovuto pentirsi per un biglietto compiacente o servile. Come l’antico Diogene aveva allontanato Alessandro dalla sua botte, così l’armatura di Forleo non veniva mai scalfita dalle lusinghe degli ominicchi e dei mezzi uomini. Ha seguìto il suo daimon, è riuscito a non essere come gli altri.
Apprezzava solo i santi volatili, quelli capaci di lievitare . Con immutato spirito di leggerezza , Forleo scompariva in una calda notte d’estate, il 27 agosto 1964. Salutando i quattro gatti, il Saturnino non poteva mancare al rendez-vous .
Aveva scritto: “Io voglio volare e volerò. E sarà in una sera di agosto, stracarica di stelle”!